Natura, scultura, architettura: un circuito inarrestabile.

Il complesso monumentale consiste di singoli episodi disposti in successione temporale: le emergenze, naturali, progettuali e artistiche, non costituiscono infatti stazioni di arrivo, ma tappe intermedie di un circuito continuo. Già nel piazzale antistante l’ingresso, sulla via Ardeatina, i fatti salienti si offrono simultaneamente e antigerarchicamente: il muro di cinta con la sua struttura a opus incertum, la cancellata disperatamente contorta, l’ accattivante gruppo scultoreo, come pure la stereometria del sacrario e l’accesso alle cave, annunciano la loro presenza senza denunciarne la relazione distributiva.

Varcata la soglia, l’ampio invaso scevro da ingombri, imparziale nel suggerire direttrici di percorso e poli di attrazione, lascia dapprima disorientati. Soltanto staccandosi dall’incombente scultura di Coccia e volgendo lo sguardo intorno, si focalizzano i singoli eventi che strutturano il piazzale: la collina sulla destra, l’ingresso alle gallerie di fronte e il luogo delle sepolture sulla sinistra che, grazie alla particolare angolazione del masso, riconduce nuovamente al gruppo scultoreo e quindi alla cancellata. La sequenza martellante orbita intorno al piazzale e ne determina il profilo organico, alieno da aprioristiche formalizzazioni. Il perno intorno a cui ruota l’intero sistema è il gruppo scultoreo, i cui tre personaggi, simbolo delle tre età e variamente orientati, nominano e fronteggiano i fulcri delle cave, del luogo delle sepolture e del piazzale, cui ogni percorso riporta.

Nell’equivalenza dei richiami, la scelta è libera. Se intraprendiamo il tortuoso cammino all’interno delle gallerie, le cui ramificazioni laterali sono state chiuse per non distrarre il passo, approdiamo al drammatico luogo dell’eccidio, un antro a luce fioca dove altre due cancellate di Mirko interdicono l’accesso.

Il percorso deve quindi riprendere e, uscito all’aperto, offre due alternative: il sentiero verde che guida al museo o alla sommità della collina fino ai crateri delle bombe, oppure, assecondando la circolarità del piazzale, l’ingresso al sacrario.

Ogni trionfalistico percorso assiale è qui bandito: entrata e uscita si susseguono lungo il lato breve del volume per riimmettersi nella piazza, direttamente o attraverso una deviazione fra i sepolcri. Si può scegliere quindi di uscire oppure, tramite un altro sentiero nel verde, di girare intorno al masso stereometrico della copertura.

Se invertiamo il senso del procedere e la successione dei luoghi deputati, possiamo partire dal sacrario o dal sentiero che lo costeggia fino alla collina sovrastante, immetterci nelle gallerie ipogeiche, sostare davanti al luogo del martirio e ritrovarci nuovamente e comunque al punto di abbrivio.

Pur configurandosi come l’episodio preminente, il sacrario delle Fosse Ardeatine è l’antitesi del «monumento». Non occupa infatti una postazione privilegiata né impone un percorso preferenziale ma, quasi invisibile dalla cancellata d’accesso, si fa fruire dinamicamente, come uno dei tanti episodi del complesso, per visioni di scorcio, parziali e successive: splendido aggiornamento di un’acropoli greca o della sua versione razionalista, la Ville Savoye di Le Corbusier a Poissy.

C’è un solo punto del piazzale dal quale il profilo del prospetto, caratterizzato da straordinaria nettezza geometrica, si offre ortogonalmente. L’accorgimento ottico di sollevare il masso, infatti, nuovamente riconducibile alla lezione greca, se consente all’interno una sezione costante di luce, pone l’esterno in ombra impedendo ai margini superiori di dissolversi nella luce. Ma per eludere ogni fulcro statico, quel punto di vista ortogonale non coincide con il centro geometrico della piazza: i tre assi che passano per il sacrario, il monumento di Coccia e il piazzale si incrociano solo bilateralmente, creando poli dinamici che invitano a procedere.

La posizione rialzata del masso, poi, interdice ogni sollecitazione prospettica in profondità; la sua funzione rispetto al piazzale è infatti quella di delimitarne l’invaso con una quinta urbana moderna e dissonante.

Ma se imbocchiamo i sentieri laterali che costeggiano il sacrario per inerpicarsi sulla collina dominante l’intero complesso, la stessa stereometria rivela inedite valenze plastiche, quasi enorme scultura minimal di cemento che, immersa nel paesaggio, sollecita a circuirla. La scultura, però, non si limita a occupare un luogo, ma si propone essa stessa come matrice spaziale del sito che ospita i sepolcri.

Un capolavoro, insomma, la cui idea fondante, proprio perché si concreta nell’essenzialità di una forma geometrica non avulsa dal contesto, può esplodere in molteplici valenze funzionali e poetiche.

Se l’idea che sottende il luogo delle sepolture è quella di una lastra tombale che accomuna il tragico destino di esistenze diverse, oggi racchiuse in sepolcri disposti in ossessiva e identica successione, la fonte di luce per quel luogo destinato al ricordo e al raccoglimento non può essere che discreta, uniforme, antigerarchica. Come ottenere allora, sotto una copertura che si estende per una lunghezza di circa cinquanta metri, una sezione luminosa costante?

Contravvenendo alla astratta impostazione della prospettiva «artificiale», i progettisti, forti della competente collaborazione di Riccardo Morandi, ripristinano quella «naturale» sondata dall’ottica antica e applicano le aberrazioni marginali patrimonio dell’architettura classica. Con due soluzioni: per ovviare all’effetto di schiacciamento che le fughe prospettiche dei lati maggiori determinerebbero lungo il piano di fondo, il masso-copertura viene sollevato con il procedere in profondità; l’intero spazio risulta così cinto da un’asola di luce uniforme che libra il masso incombente, sortendo lo stesso effetto levitante della corona di finestre che taglia la cupola di S. Sofia a Costantinopoli.

In secondo luogo, dato che una superficie piana, soprattutto se sovrastante una fonte luminosa, viene percepita secondo un profilo convesso, quasi a cupola rovesciata, l’interno del soffitto è stato sapientemente curvato nella direzione dei due assi: i limiti che circoscrivono la fenditura di luce si offrono così netti, taglienti e rigorosamente paralleli.

Attraverso questa finestra continua a nastro, inquadrature del paesaggio circostante leniscono l’oppressione dell’invaso interno.

Agli antipodi, nelle gallerie ipogeiche, dove è stato bandito ogni progetto che non fosse di mero consolidamento, la dialettica luce-ombra, interno-esterno, è drammatica e senza mediazioni: il percorso tortuoso, accidentato e buio è improvvisamente illuminato dagli squarci irregolari della volta proprio in corrispondenza del punto in cui è stato perpetrato il crimine che le bombe degli aguzzini avrebbero voluto celare.

Due voragini naturali adiacenti, oltre le quali il percorso riprende in progressiva oscurità.

Preda dei mutevoli agenti atmosferici, il luogo contrappone simbolicamente e architettonicamente alla geometrica atemporalità del sacrario il monito attuale e tragico della storia. Un contrasto drammatico che si ripropone nelle cancellate di Mirko.

Quella di accesso al mausoleo scorre a saldare il muro di cinta dai conci disposti a incastro; cerniera obbligata, lascia intravedere fra i vuoti l’invaso spaziale retrostante ed è dominata, a un estremo, dal gruppo scultoreo di Coccia. Quale metro poetico guida Mirko? La parola a Corrado Maltese:

Mirko trovò la strada giusta e invece di cedere alle istanze del formalismo iconico o del naturalismo descrittivo, oppure di volgersi all’aniconismo totale, puntò decisamente al sovvertimento di entrambi […]. D’altra parte per Mirko il problema era di contestare il codice iconico non aprioristicamente, ma sperimentalmente. Si doveva poter passare dalla «figura» alla materia ma si doveva poter tornare dalla materia alla figura, cioè, dalla ricerca plastica al significato e alla rappresentazione iconica […]. Il «cancello», in quanto pannello tendenzialmente a due dimensioni, si prestava perfettamente, come un quadro, ad accogliere i segni e i simboli di una diversa spazialità. Il fatto, poi, di poter essere, in quanto cancello, traforato, accresceva le possibilità di esprimere con i vuoti ulteriori dimensioni […]. La via fu dunque chiara: si trattava di conservare personaggi e cose, ma riducendoli a semplici indicazioni di dimensioni dello spazio: avanti, indietro, lunghezza, movimento. Perciò le teste furono rappresentate con tanti piccoli tondi simili a bottoni o con maschere a forma di spicchio; i corpi con sagome falcate che ondeggiano, si piegano, colpiscono.

Lame di ferro si contorcono e stratificano convulsamente in tutte le direzioni, per creare sulla superficie una spazialità dinamica frutto d’una visione temporalizzata. Nelle tortuose gallerie ipogeiche, invece, dove Mirko realizza altri due cancelli per circoscrivere il luogo dell’eccidio, il dramma della scultura sembra placarsi al cospetto di quello storico: la composizione si distende maggiormente sul piano, si graficizza, moltiplicando i vuoti e contenendo gli accavallamenti. All’esterno come all’interno, il criterio guida è dunque la dissonanza poetica: Mirko non sceglie né di descrivere il dramma come Coccia, né di prescinderne a favore di una soluzione astratto-geometrica, ma opta per un’ipotesi allo stesso tempo astratta ed espressionista, poeticamente autonoma ma emotivamente coinvolta. Ritroviamo la stessa dialettica nel sacrario, la cui stereometria avversa il naturalismo circostante, ma a esso si informa nel trattamento «scultoreo» del cemento lavorato a punta, o nel continuum organico che la pietra sperone realizza saldando il pavimento ai muri perimetrali.